FiniMondi – La Fine del Mondo, in Tre Movimenti


di Armando Andria (Rassegna FiniMondi)

L’apocalisse in persona – una premessa
Elisabeth Vogler ha visto. Ha guardato negli occhi il mondo fermarsi, una volta, quando dal palco di un’Elettra ha trattenuto la battuta in gola e bloccato lo spettacolo per un intero minuto, una vita. In quel minuto ha sbirciato la struttura invisibile del mondo, in quel silenzio ha scoperto – lei, l’attrice – che la forza che lo fa muovere reca il segno impuro della simulazione, del falso. Ecco perché, ora, vuole conservare il mutismo e con esso l’immobilità: non parlare per non mentire, non muoversi per non fingere. Elisabeth vuole essere, non sembrare.

Un’angoscia potente accompagna la visione di Persona, che mette in dubbio, se siamo disposti ad ascoltare, lo stesso senso profondo della nostra esistenza. A quale prezzo siamo al mondo? sembra chiederci Bergman a ogni fotogramma. I ruoli che interpretiamo, e che filtrano la nostra esperienza del mondo e degli altri, li diamo solitamente per scontati, non arriviamo a percepirli. Ma esiste per ognuno (forse) di noi un momento nel quale un barlume sconcertante di verità rischiara la vista. Il momento epifanico in cui le maschere si rendono visibili ed è quindi possibile strapparle via e guardarsi in faccia. È la fine del mondo. L’intera nostra esperienza del reale si sfalda, gettandoci nel terrore più puro. Ecco che ci guardiamo vivere, direbbe probabilmente Antoine Roquentin.

L’ultima immagine, e la prima
Forse in tempi di profezie senza ritorno, che annunciano con tanto di date e luoghi puntuali eventi apocalittici a stretto giro, si rischia di essere meno attenti alle fini del mondo più prossime e quotidiane, quelle che si consumano ogni momento attorno a noi, magari dentro.

L'attentato alle Twin Towers dell'11 Settembre 2001

L'attentato alle Twin Towers dell'11 Settembre 2001

Lo sterminio di Auschwitz

Lo sterminio di Auschwitz

L’immagine della catastrofe, che nel Novecento si è prepotentemente «materializzata» e installata nelle nostre retine, ha certamente modificato il nostro sguardo prospettico sul reale. Ma cosa è accaduto al mondo e a noi da quando abbiamo cominciato a familiarizzare con l’idea della catastrofe? Cosa comporta l’aver visto in diretta e poi migliaia di volte rivisto, tutti insieme e da tutte le angolazioni possibili, i due aerei schiantarsi sulle Twin Towers o, poco prima, i corpi ammassati all’ingresso di Auschwitz? Abbiamo davvero guarito la miopia per diventare, per dir così, presbiti?

C’è in realtà un’altra possibilità, che affascina e convince di più se solo si è disposti a produrre un piccolo scarto simbolico e di senso. Cioè che quelle profezie di cataclismi su scala planetaria altro non siano che la proiezione metaforica – narrativa e pubblica – di apocalissi private e irraccontabili, che riguardano la nostra stessa possibilità di essere al mondo; la «riguardano» nel senso che la mettono alla prova. La fine di un amore o del tempo idilliaco della giovinezza, la scomparsa di Dio o di una persona amata sono eventi che producono in noi fratture insanabili, spartiacque tra un prima e un dopo. Causano la fine del mondo per come fino a quel momento lo conoscevamo.

La scena del treno nel primo film della storia del cinema dei fratelli Lumiere

La scena del treno nel primo film della storia del cinema dei fratelli Lumiere

Il cinema, per parte sua, è fine del mondo per storia e vocazione, sin da quando, centosedici anni fa, il treno minacciò di uscire dallo schermo e travolgere gli atterriti spettatori parigini. L’esperienza della sala, qualsiasi sia il film proiettato, segna di per sé una cesura con la «realtà della vita», determina lo scarto tra il qui e il non so dove, il balzo – ci viene in soccorso Freud – dall’heimlich (ciò che è confortevole, familiare) all’unheimlich (il perturbante). Al cinema ci si abbandona a un’esperienza fisica e psichica ambigua di sogno in stato di veglia; a un’allucinazione volontaria che decreta, seppure a tempo determinato, la propria assenza dal mondo.

"L'Enfant" dei fratelli Dardenne

"L'Enfant" dei fratelli Dardenne

Alcune immagini in particolare sembrano incaricarsi di mettere in scena la cesura con l’al di qua dallo schermo più decisamente e direttamente. In una scena de L’enfant, uno dei capolavori dei fratelli Dardenne, Bruno, ventenne scapestrato che vive di furti, annuncia alla sua compagna, Sonia, di aver appena venduto il bambino a cui insieme hanno dato la vita. «Ne faremo un altro», prova a rassicurarla, tendendole la corposa mazzetta di euro ricavata dall’affare. La ragazza fa per protestare, poi lo fissa per un momento senza parlare, infine sviene. Sopraffatta da un evento che eccede la sua possibilità di comprensione ed elaborazione, Sonia, letteralmente, manca al mondo. E allora da dove, nell’attimo prima di svenire, Sonia ha fissato Bruno – ovviamente senza davvero vederlo, trapassandogli con lo sguardo il corpo – se non da un luogo in cui il mondo è finito?

La piccola Toots in "Bright Star" di Jane Campion

La piccola Toots in "Bright Star" di Jane Campion

E ancora, sarà giusto chiedersi, c’è davvero differenza tra la profezia di un’apocalisse a mezzo glaciazione o invasione aliena, e la foglia ingiallita tra le mani della piccola Toots che in Bright Star annuncia l’arrivo dell’autunno e con esso, fuor di metafora, la morte imminente di John Keats?

Ben Whishaw (John Keats) e Abbie Cornish (Fanny Brawne) in "Bright Star" di Jane Campion

Ben Whishaw (John Keats) e Abbie Cornish (Fanny Brawne) in "Bright Star" di Jane Campion

Le rovine atomiche di Le dernier combat e quelle morali di Festen, la post-umanità di Electroma e la troppo-umanità di Rabbit Hole; su tutto, prima di tutto, il presagio di Hanging Rock. La collisione con la melancholia e la conseguente deflagrazione appena avvenute erano da tempo annunciate.

L’apocalisse in persona – un epilogo?
Ma un’apocalisse è – può essere – una possibilità.

Bibi Andersson (Alma) e Liv Ullmann (Elisabeth Vogler) in "Persona" di Ingmar Bergman

Bibi Andersson (Alma) e Liv Ullmann (Elisabeth Vogler) in "Persona" di Ingmar Bergman

La vacanza terapeutica sulla remota isola di Fårö che in Persona Elisabeth intraprende insieme all’infermiera Alma, si svolge in uno spazio-tempo impossibile in cui due persone infrangono il patto sociale vita-come-rappresentazione. E abbozzano una palingenesi. Pure e assolute, di un bianco accecante l’una per l’altra, Elisabeth e Alma sono; non c’è comunicazione tra loro, ma fusione. Da quel luogo recondito interrogano direttamente noi, guardando in camera, abbattendo anche l’ultima barriera posta a difesa della messa in scena. Ci guardano immobili dalla fine del mondo.

Ma quanto può durare? Quanto dura un’apocalisse? Il tempo che la realtà trovi il buco da cui penetrare nel nascondiglio e ci induca nuovamente, sopraffatti dal terrore di essere, a fingere per vivere. La purezza e la vita non hanno niente a che fare. O siamo menzogne o non siamo.

La visione di Elisabeth è repressa nel bianco. La pellicola brucia, il film finisce. Il mondo è salvo.

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